È giunto il tempo di semplificare le istituzioni infraregionali che oggi sono presenti nel nostro ordinamento. Non per fare della spicciola demagogia, ma perché i cittadini le percepiscono come distanti e anche tra gli addetti a lavori si fatica a distinguere le funzioni di questo e di quest’altro ente.
Il tema del riordino delle Province, all’attenzione dell’opinione pubblica da qualche anno a questa parte, investe direttamente i Comuni e la loro Associazione e quindi non intendiamo certo tirarci indietro nell’esprimere una posizione e un orientamento da offrire alla riflessione del Consiglio delle Autonomie Locali e della Regione.
La condizione primaria che noi poniamo, è che non si tratti solo di questo “pezzo” delle istituzioni, ma anche dei “rami alti” del sistema statale. Auspichiamo quindi una revisione dei ruoli di Camera e Senato, per arrivare al superamento del cosiddetto “bicameralismo perfetto” e approdare così verso una “seconda camera” espressione delle autonomie locali e regionali, come già avviene nella gran parte degli Stati federali e regionali. Pesa inoltre sulle nostre spalle l’attuazione parziale del titolo V della Costituzione: una riforma, quella del 2001, che è stata fatta con inadeguato coraggio e ancor minore condivisione politica e istituzionale. Limiti non facili da superare.
Il modello al quale il sistema istituzionale toscano dovrebbe approdare deve essere caratterizzato dal fatto che le Regioni siano pienamente titolari delle funzioni legislative e di alta programmazione dei processi economici e sociali, conferendo ai Comuni la piena titolarità della funzione amministrativa, con la relativa attribuzione delle risorse umane ed economiche e da esercitarsi in forma di autonoma organizzazione. Un modello, quindi, che deve respingere le volontà accentratrici dell’ente Regione, valorizzando invece i processi concertativi tra questi due principali livelli di governo in sede regionale, con una declinazione (anche in Toscana) diversa da quella oggi esistente: a un corpus di nome specifico (art. 48 dello Statuto della Regione e la più recente legge regionale, la 68/2011, che declina in legge il tema della concertazione interistituzionale) e a uno “statuto materiale” denso di esperienze, fa da contraltare, purtroppo in questa prima fase della legislatura uno svilimento delle relazioni. L’idea che è alla base del punto di vista dei Comuni mira alla valorizzazione delle gestioni associate, soprattutto per il tramite delle Unioni, puntando su criteri di economicità, adeguatezza, efficienza e qualità dell’offerta, senza dimenticare che bisogna fare i conti con la drammatica mancanza di risorse per il mantenimento delle attività in essere e per la
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gestione delle funzioni proprie degli enti e quelle delegate o attribuite da altri livelli istituzionali.
Oggi i Comuni si scontrano direttamente e quotidianamente con la crisi economica che sta attraversando il Paese: questa impatta pesantemente sulla qualità della vita delle persone e delle famiglie, coinvolgendo anche i valori della società in cui viviamo. La sfiducia verso le istituzioni, come i numerosi sondaggi ricordano, prende sempre più piede ed è per questo che le pressioni per approdare nel minor tempo possibile a una riforma, in questo caso delle Province, arrivano da più parti e trovano nell’opinione pubblica una domanda di assunzione di responsabilità delle istituzioni e del mondo politico.
L’occasione che oggi è offerta per la realizzazione di un nuovo modello istituzionale è quella del riordino delle province. Un’occasione che, al di là dei limiti evidenti delle norme adottate dal Parlamento, va comunque colta. Certo, i processi di riforme istituzionali non possono poggiare solamente sul tema del recupero delle risorse, ancor più se tutto questo avviene con leggi confuse e sovrapposte, dettate con molta probabilità dallo stringere dei tempi: in questo modo non si tiene conto delle esigenze dei territori e delle popolazioni, oltre che della loro storia e cultura. E non si da conto, forse, nemmeno dei principi costituzionali, riferiti, soprattutto dall’art. 133, che disciplina il procedimento di revisione dei confini amministrativi.
Passando rapidamente in rassegna le norme e i provvedimenti che oggi interessano l’ente Provincia, è evidente come ci siano stati interventi di diversa natura.
1. proposta di legge costituzionale presentata nel maggio 2009 volta a espungere la parola “Provincia” dalla Costituzione;
2. proposta di legge costituzionale presentata nel luglio 2011 per trasferire dallo Stato alle Regioni la competenza in materia di istituzione di nuove Province e di mutamento dei confini delle Province esistenti;
3. l’articolo 23, commi dal 14 al 21 del Decreto “Salva Italia”, che mira a una riforma del sistema delle Province, affidando a esse le funzioni di indirizzo e controllo e disponendo la riduzione del numero di consiglieri e l’elezione da parte di sindaci e consiglieri comunali. Queste disposizioni saranno oggetto di una pronuncia della Corte Costituzionale visto il ricorso presentato da sei Regioni;
4. il disegno di legge del maggio 2012 che disciplina l’elezione indiretta (di secondo grado) del Consiglio Provinciale e del Presidente della Provincia;
5. gli articoli 17 e 18 del D.L. 95/2012, come convertito con legge 135/2012, che riguardano il riordino delle Province e l’istituzione delle città metropolitane.
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Tutta questa serie di provvedimenti evidenzia come, dal Governo Berlusconi per arrivare a quello Monti, il processo di riforme istituzionali sia stato definito in maniera disorganica e confusa, senza consultare come dovuto gli enti locali e le popolazioni interessate e non avendo in mente un modello guida per la sua realizzazione. Restando nel campo degli enti locali, il processo di riforma dovrebbe essere di più ampio respiro. L’auspicio è che non cadano nel dimenticatoio quelle “riforme” necessarie per approdare al modello da noi ipotizzato. Per intanto, bisognerebbe rispolverare dall’armadio la Carta delle Autonomie, “impantanata” in Parlamento da diversi, troppi anni; portare poi a compimento il processo di attuazione del “federalismo istituzionale”, ancor prima di quello fiscale; proseguire e completare il lavoro su fabbisogni e costi standard, che si è contraddistinto per uno dei processi più complessi e partecipati per conoscere i conti degli enti locali; e fare, infine, chiarezza sui ruoli e sulle competenze delle istituzioni, prendendo come perno i Comuni per la generalità delle funzioni amministrative e per la competenza legislativa e di programmazione le Regioni.
Quello che però oggi è all’ordine del giorno e su cui dobbiamo confrontarci, vale a dire l’articolo 17 del D.L. 95/2012, pone alla nostra attenzione il fatto che i due criteri (più uno) individuati dal Governo siano rigidi e non lascino adeguati spazi di manovra nemmeno nella nostra Regione, poiché nove province su dieci non rispettano i parametri, mentre l’attuale Provincia di Firenze si trasformerà in Città Metropolitana.
Ovviamente la “via maestra” è quella che porta alla soppressione delle Province per il tramite della loro decostituzionalizzazione, rimettendo la scelta alle Regioni che, di concerto con i Comuni (nella forma della concertazione interistituzionale) decidono con legge regionale quale ente intermedio darsi. È chiaro che questa può esser vista come una posizione radicale e poco condivisa e quindi non pacifica, perché storicamente l’ordinamento comunale è sottoposto a leggi statali e non regionali. Dal punto di vista dell’attuazione del modello istituzionale da noi proposto, questo sarebbe tuttavia inevitabile. L’obiettivo non è solo quello di individuare il miglior livello istituzionale per le funzioni e i servizi, ma anche quello di disegnare sistemi istituzionali territoriali in grado di competere in una dimensione europea.
Va ricordato che da un punto di vista storico, la nascita dell’ente Provincia in Italia è avvenuta ispirandosi al modello francese per rispondere all’esigenza dello Stato di gestire le proprie funzioni nei territori. Questa logica, necessaria per realizzare il processo di unificazione, è durata in Italia fino all’avvento della Costituzione repubblicana, nel 1948. Parallelamente per lo stesso motivo sono sorte, nel 1982 le Comunità montane: a esse le Regioni hanno attribuito la gestione delle funzioni proprie nei diversi territori, con una scelta politica e istituzionale quindi ben precisa di non voler attribuire ai Comuni tutte le funzioni amministrative. È normale quindi che come Associazione che tutela in primis le prerogative dei Comuni, il superamento di un modello che limita l’autonomia comunale possa essere considerato come un primo, efficace risultato.
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Cogliamo quindi quest’occasione che ci è data avviando un percorso partecipativo che coinvolga molteplici soggetti: città, istituzioni, territori, corpi intermedi della società, contributi di autonomi centri di ricerca e di singoli studiosi. E le tante posizioni espresse in queste ultime settimane senza un vero filo conduttore evidenziano oggi il limite che ha caratterizzato anche l’azione del sistema delle autonomie locali della Toscana, che ha avviato questo percorso partecipativo senza invitare i diretti interessati, vale a dire gli enti locali.
L’empasse evidente che si sta sviluppando nelle sedi istituzionali in cui si sta discutendo al riguardo del riordino delle Province, ci porta a suggerire di voler prima realizzare l’adempimento previsto dal Decreto “spending review” e avviare, in contemporanea, un lavoro sui riassetti istituzionali della Toscana, utilizzando il procedimento ordinario previsto dall’articolo 133 della Costituzione. Un primo tempo esclusivamente rispettoso dell’adempimento, dunque, e un secondo tempo “vero”, che apra un processo partecipato e raggiunga un risultato condiviso e appropriato rispetto alla storia, alle vicende politiche e sociali del territorio della Toscana e dei suoi abitanti.
Cosa succederebbe, quindi, in Toscana applicando meccanicamente gli articoli 17 e 18 del D.L. 95/2012. Che provoca il rispetto puntuale di ognuno dei due criteri e di entrambi? Come si svolge l’adempimento? La soluzione imposta è quella di tre province, vale a dire Pistoia e Prato accorpate con Lucca e Massa Carrara; Pisa assieme a Livorno; Arezzo unitamente a Grosseto e Siena. La Provincia di Firenze si trasformerebbe in Città metropolitana. Come abbiamo già avuto occasione di ricordare prima questo esito presenta notevoli criticità, mettendo assieme territori che storicamente e culturalmente hanno poco o nulla da spartire. Creando così situazioni di forte conflittualità politiche e istituzionali e malumori pesanti nell’opinione pubblica, in una situazione già provata a causa dei drammatici effetti delle crisi finanziaria ed economica.
Anche per ciò che riguarda la soppressione della Provincia di Firenze, e l’istituzione della Città metropolitana, si ravvisano criticità e punti deboli sotto il profilo della chiarezza normativa e delle opzioni che saranno rimandate al futuro statuto. D’altra parte sappiamo che le riforme sono al palo da oltre vent’anni. Pertanto occorrerà che i Comuni del territorio della Provincia di Firenze diano la migliore attuazione possibile a questa legge che, seppur imperfetta, prevede precise scadenze per l’istituzione dell’ente di rango costituzionale della Città metropolitana, finalmente verso la concreta introduzione e non più solo oggetto di infiniti dibattiti e convegni.
Il tempo stringe però, e il 2 ottobre inesorabilmente si avvicina. La richiesta che potrebbe essere presentata al Governo dovrebbe andare verso una direzione ben precisa che forzi i criteri e non i principi di fondo della legge, con lo scopo di raggiungere sostanzialmente l’esito atteso dal Governo. Si tratta di contemperare l’obiettivo della riduzione del numero delle Province, puntando tuttavia a raccogliere un maggiore
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consenso dei territori e sulla definizione di auspicabili intese fra le città da rivolgere agli organi dello Stato. Tutto questo però avrebbe bisogno di un essenziale prerequisito, in altre parole la coesione del sistema toscano verso il Governo. A oggi, questo sembra molto lontano per una serie di fattori che tutti conoscono.
Il secondo tempo del lavoro punta a un nuovo sistema istituzionale che prenda atto della necessità d’interventi sui confini comunali (delle leggere “sagomature” interne ai perimetri degli attuali Comuni); di valorizzare le ipotesi di fusioni di Comuni e di incoraggiare le gestioni associate, svolte soprattutto per il tramite delle Unioni: queste ultime, uno strumento forte e strutturato, possono certamente rappresentare la sperimentazione delle fusioni di comuni.
Questo percorso potrà portare a un sistema imperniato sulla “democrazia comunale”: tutti quegli enti intermedi che sono collocati fra la Regione e i Comuni avranno quindi riconoscimento e legittimazione a partire dalle scelte e dalle decisioni delle singole realtà comunali, che hanno organi direttamente eletti, quali il Sindaco e i Consigli Comunali.
Ricorrendo quindi allo strumento referendario, previsto dall’art. 133 della Costituzione, sia quello di natura territoriale finalizzato a rivedere le circoscrizioni comunali e provinciali e a quello consultivo, cui far partecipare la generalità dei cittadini toscani, per consentire loro di esprimersi sui nuovi assetti istituzionali toscani.
In questo modo (i due tempi), si raggiunge l’obiettivo che è oggi quello di arrivare a una proposta che sia dell’intero sistema istituzionale toscano. La coesione è, in questa fase, di per sé un valore; la divisione rimette al Governo e al Parlamento ogni decisione, fa della Toscana un territorio “rinunciatario” e mina ogni potenzialità del percorso “costituente” che si può aprire in Toscana.
Il tema che più sta a cuore al sistema dei comuni è quello dell’attribuzione delle funzioni. Un titolo finora in ombra e ancora non trattato. Quella che oggi vorremmo mettere in agenda è la richiesta dei Comuni alla Regione di svolgere rapidamente la ricognizione delle stesse, che la legislazione in vigore le affida come compito e portare tutti i soggetti rappresentativi delle autonomie locali a un confronto, fermo restando l’impegno di attribuzione di tutte le funzioni amministrative ai Comuni. Del resto non può che essere la sfera delle funzioni amministrative fondamentali a rappresentare la pietra di paragone per la declinazione concreta di qualsiasi riordino e riassetto istituzionale.
Non sarebbe accettabile uno scenario distante da quello che noi intendiamo realizzare e che qui abbiamo tentato di illustrare. È questa la vera questione che interessa cittadini e amministratori locali:
la difesa dei servizi nei territori e nelle città grandi, medie e piccole, fronte dell’amministrare quotidiano e primo livello della democrazia italiana.
Una bombola di ossigeno e’ esplosa nel Centro di medicina iperbarica e subacquea di Massa: un tecnico di laboratorio, una donna di 31 anni di Sarzana, e’ rimasta gravemente ustionata. E’ arrivata al pronto soccorso con ustioni di quarto grado su tutto il corpo e durante il trasferimento d’urgenza a Pisa ha avuto un arresto cardiaco. L’incidente e’ avvenuto in un deposito esterno al centro iperbarico dove ci sono le bombole che servono agli impianti. La trentunenne stava svolgendo un controllo tecnico.