Domandiamoci che differenza possa passare tra cadere da un ponteggio o morire per aver respirato sul luogo di lavoro, ovviamente la risposta è che non c’è nessuna differenza. Forse qualcosa nel merito ma nella sostanza sempre di morte bianca si tratta. Morte sul luogo di lavoro. Ma per le vittime dell’amianto la lotta per vedersi riconosciuta la malattia professionale il più delle volte diventa un infinito tunnel di carte bollate e battaglie legali. A denunciarlo è l’Associazione famiglie esposte all’amianto (Afea) intitolata al carrarese Mario Barbieri che ieri a Sarzana ha celebrato la prima assemblea nazionale. La prima battaglia che l’associazione sta portando avanti riguarda 40 operai dei nuovi cantieri apuania tutti ammalati di asbestosi, una malattia strettamente legata alle fibre di amianto con cui ogni giorno per decenni questi operai hanno lavorato. Storie e drammi personali divenuti battaglie comuni quando si è capito che solo un fronte comune dei famigliari avrebbe portato a qualche risultato per ottenere giustizia. Come la storia di Adriano Boggia, 51 enne, morto nel 1994 dopo 30 anni di lavoro in cantiere, ucciso dall’amianto. Fu lui il primo operaio morto per amianto in cantiere, adesso il figlio Luciano porta avanti la battaglia nel nome di suo padre. Stessa storia ma ancora più dolorosa per Federica Barbieri: il padre è morto dopo cinque anni di agonia e adesso la sua storia è finita in un aula di tribunale per un contenzioso con l’Inail per il risarcimento per malattia professionale.