Sull’atteso pronunciamento della Corte Costituzionale in tema legge regionale cave e beni estimati occorre fare un’operazione di verità prima che una ricostruzione farcita di falsità e di feroci invettive diventi realtà percepita.

La Consulta, infatti, non è chiamata a stabilire se alcune cave (o parti delle loro superfici) siano private o pubbliche ma a pronunciarsi sulla legittimità di un articolo della legge  regionale cave che, come è chiaramente rilevato nel ricorso del Governo, disciplinerebbe un diritto reale, materia notoriamente di competenza esclusiva del Parlamento.

E’ bene ricordare che l’eventuale rigetto del ricorso del Governo non statuirebbe automaticamente che le cave delle Alpi Apuane sono tutte pubbliche; alcune, per esempio, sono legate a contratti notarili precedenti all’editto del 1751; in altre, che erano semplici superfici agricole o boschive, i relativi permessi di ricerca e le autorizzazioni sono stati rilasciati molti anni dopo il regno di Maria Teresa; altre, ancora, sono state oggetto di cessione di pieno diritto di proprietà da parte dei tribunali della Repubblica Italiana. 

Non sorprende più di tanto che, dopo aver demonizzato con una over dose di acredine il settore estrattivo,  il solito coro  stonato di associazioni e movimenti politici alzi di nuovo la voce con l’intento di indurre la Consulta a rispondere a quesiti ai quali, per alcuni profili, non è tenuta a rispondere e, per altri, non può in ogni caso mettere la parola fine.

Stupisce, piuttosto, che un gruppo di persone peraltro rispettabilissime e piene di titoli accademici e meriti artistici abbiamo sottoscritto un appello sconclusionato e pieno di falsità senza preoccuparsi di verificare se i teoremi sui quali si sostiene sono fondati; hanno firmato probabilmente in buona fede ma disinvoltamente e senza sapere che nel nostro caso le cave sono già in ampia maggioranza pubbliche e di fatto sottoposte alle regole della gestione del patrimonio pubblico (diversamente da quanto succede nella Sicilia tanto cara a Camilleri!); che tutte le attività estrattive sono disciplinate ed autorizzate su presentazione di domande corredate da meticolosa documentazione tecnica; che tra contributi di estrazione e canoni concessori i comuni incassano circa 30 milioni di € (di cui 26 solo Carrara); che l’economia del marmo sostiene il 10% di tutta l’occupazione provinciale (22% nel solo Comune di Carrara).

Il tutto con una differenza sostanziale. I professori scrivono bei libri e dotti trattati. Le imprese investono, mobilitano risorse, creano occupazione e tengono viva quell’identità e quel senso di comunità di polo lapideo leader a livello internazionale che i promotori dell’appello, con le loro litanie piene di falsità, cercano di sgretolare.